Io non sono un tipo che si commuove facilmente, per cui nel leggere “ Quando le montagne cantano” della vietnamita Nguyen Phan Que Mai, per buona parte del libro ho pensato che fosse lungo, noioso, mieloso.
Chi ha letto “Niente e così sia”, il meraviglioso libro di Oriana Fallaci, difficilmente ignora cosa sia stata la guerra del Vietnam: per cui conoscevo le vicende, ma sono caduta nella trappola dell’omonimia, attribuendo all’autrice un premio Pulitzer, che invece apparteneva a un vietnamita maschio, di nome Viet Thanh Nguyen. Per fortuna, un’amica molto dotta mi ha corretto la rotta e salvata dalla figuraccia.
Così, alleggerita dal fatto che non trovavo neppure grandi meriti narrativi, – avrebbero dovuto esserci, se fosse stato un Pulitzer, che non ha mai tradito – ho proseguito la lettura del libro, che sostanzialmente segue il racconto che una nonna fa alla nipote di tutte le tragedie passate dal loro paese.
Ora questa nonna non è una vecchina fragile, ma una donna di poco più che cinquant’anni, con lunghe gambe, bel seno e viso molto affascinante, che ha saputo fare trecento chilometri a piedi per raggiungere Hanoi, scacciata dalla sua casa e dai suoi campi dalla famigerata riforma agraria comunista, che ha depredato e ucciso i proprietari terrieri. Aveva con sè cinque dei suoi sei figli.
Due parole sull’autrice Nguyen Phan Que Mai, giornalista e poetessa, che ha lavorato come venditrice ambulante e coltivatrice di riso e che ha potuto trasferirsi all’estero grazie ad una borsa di studio. A lungo ha analizzato gli effetti a lungo termine della guerra.
L’Io Narrante è la piccola Huong, che ascolta la coraggiosa nonna Dieu Lan che, mentre scendono dalle montagne sotto il rombo dei bombardieri americani, narra alla nipote la storia della sua vita, dall’occupazione francese, alle invasioni giapponesi, alla vittoria comunista, contro cui si sta scatenando reazione Usa.
E’ stato a questo punto che ho avuto un’emozione forte, perché Dieu Lan durante questo drammatico cammino lascia uno alla volta i suoi figli, una scelta tanto coraggiosa quanto terribile: li abbandona nei villaggi che attraversa durante il viaggio, con la speranza che un giorno si ritrovino.
E d’improvviso mi sono ricordata del gesto – di poche settimane fa – di quella madre afgana che metteva il suo neonato all’aeroporto di Kabul nelle mani di un militare americano. Ciò mi ha fatto pensare al concetto di maternità occidentale e orientale. Sono diversi, secondo voi?
La nonna ritroverà uno alla volta i suoi figli, inclusa la madre di Huong, molto diversa dalla donna che aveva lasciato, traumatizzata dalle tragedie che aveva vissuto. Carestie, guerre e rivoluzioni, nell’intera crudezza dei fatti.
La famiglia sembra esserci riabbracciata, ma la guerra divide e distrugge anche quando ormai è finita. Tre storie in un arco temporale che va dalla riforma agraria degli anni ‘50 fino al bombardamento americano di Hanoi degli anni ‘70.
Per concludere, un libro sul quale non ho cambiato parere sino alla fine. Niente di speciale, niente di nuovo.
PS. Per riscattarmi dalla mancata figuraccia, mi sono letta le seicento pagine del Premio Pulitzer, dal titolo “Il Simpatizzante””. Stesso ambiente, stesse problematiche, ma un libro splendido, il cui protagonista è un doppiogiochista che stando col Vietnam lavora in realtà per i Vietcong.
Ecco, questo sì, è qualcosa di molto speciale, qualcosa di nuovo. Perché l’ultima parte del libro è dedicata alle torture che il protagonista subirà dai suoi ex compagni quando verrà scoperto. E qui ho approfondito il concetto di Male, che in realtà ha lo stesso simbolo dell’Infinito.
Sergio dice
Mi ha fatto la stessa impressione