E dunque, eccoci qui a parlare del Premio Campiello che Nicoletta Verna ha meritato, fuor d’ogni dubbio, con un titolo azzeccatissimo ed accattivante come “ I giorni di Vetro”, che ovviamente tutti hanno pensato si riferissero ad una fragilità intrinseca. Ma non è così, e questo non è che il primo dei piccoli e grandi segreti che intrecciano la storia. Poiché il web tracima della trama del libro mi limiterò a parlarvi degli stati d’animo che mi hanno pervaso. Niente da dire sulla perfezione stilistica, sull’inserimento del dialetto con modalità del tutto naturali, sulla passione che l’autrice semina a piene mani in ogni personaggio buono o perfido che fosse.
Regista di un vasto affresco, Verna si serve di un doppio IO narrante che è un escamotage poco usato, che ha il suo effettaccio. Siamo nei tempi bui del tardo fascismo e la vicenda si svolge a Castrocaro, che non sapevo che, oltre ad aver dato i natali a un celebre festival, fosse anche stato il luogo di nascita della Repubblica Sociale, perchè la Romagna era terra di Mussolini e la Romagna ha versato sangue più di molte altre regioni italiane.
La vicenda ripercorre la vita di due famiglie, di cui Redenta è la prima sopravvissuta dopo tre fratellini morti e si capisce subito che sarà il deus ex machina degli strazianti accadimenti che compongono il libro ma anche la regina assoluta, per via di quel colpo di fucile al cuore che sarà così coraggiosa da sparare. Siamo in una guerra civile e Iris, la deuteragonista, è una partigiana con le palle che poco a poco si accaparra un ruolo fondamentale.
La lettura del libro lascia dei profondi interrogativi.
Come è noto a tutti, lo stato della letteratura italiana è decisamente favorevole alle donne, redimendosi da secoli di occultamento, gli scaffali delle librerie o le finestre dei reader presentano prevalentemente titoli di donne. Meno male che domani esce l’ultimo libro di Sandro Veronesi, altrimenti si stava per creare una situazione a specchio: questi libri, in un effetto domino generale, raccontano storie di piccoli paesi sudisti, poveri ed affamati, dai quali si eleva una figura di speranza, che siano nonne o bisnonne, poco importa, e quanto al resto del mondo, poco si sa.
Mi viene in mente l’impavida Madame de Staël che nel primo decennio dell’800 non si faceva scrupolo di rinfacciare ai letterati italiani quanto fossero provinciali, quanto
fossero ingabbiati nel classicismo e non si degnassero di dare un’occhiata intorno.Da lì poco a poco sgusciò fuori il Romanticismo e personalmente ne ho dato parte
del merito anche alla suddetta signora. Così come mi capita di pensare che negli ultimi decenni ci siamo un po’ arricciati nel nostro vissuto, e, visto che andava alla grande e che di occhiate intorno ne abbiamo date pochine, (altra malizia non da poco, retropensiero di retropensiero) ho avuto l’ardire di sospettare che in tanta gloria dell’autrice ci fosse anche uno zampino politico, dato che mai si era letto di tanta spietatezza, brutalità, crudeltà animalesca, ferocia, atrocità, barbarie come nelle scene in Abissinia ed Etiopia o nella camera da letto del gerarca fascista: si potrebbe credere che ad intingere la penna dell’autrice fosse il suo recente e spettegolatissimo outing elettorale e che
se al governo ci fosse una parte di segno opposto, simili descrizioni non si sarebbero lette ma neppure pensate.
Io che sono un po’ cinica ed audace, chiedo scusa ai palati delicati e mi chiedo come sia possibile apprezzare tanto un libro e farsi contaminare dai dubbi.
È possibile perché siamo in un’epoca in cui le vecchie etichette di guelfi e ghibellini abbiano ripreso vigore: stracchini freschi e non più parmigiano
stravecchio. Vabbè. Tornando a noi MA direi che una piccola reminiscenza su Madame de Staël si dovrebbe fare e che un’occhiatina al resto del mondo la si dovrebbe dare.
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