Si parlava giorni fa, con una cara amica di vecchia data, di come ci fossimo nella vita trovate in sintonia su tutto, ma ancora non sapevamo che, nella fase successiva al gattonare, entrambe odiassimo l’antropomorfizzazione delle favole, attribuendo a Flora e Fauna vizi e virtù del mondo degli adulti.
Non che la nostra generazione fosse simile a quelle delle attuali serie tv, con bambini rompiballe che ricattano genitori onusti di sensi di colpa, ma qualche favola l’ascoltavamo anche noi o forse ce le inventavamo di sana pianta.
Ora il dovere impone di leggere “ Dei miei stupidi intenti” di Bernando Zannoni, insospettabile premio Campiello, che narra la nascita-morte-miracoli di una faina. Che, come fa molto figo adesso, scrive il suo memoir.
Ci si chiede il perché di un premio così glorioso a questa storia, se vogliamo sbarazzarci del tutto degli intrighi editoriali tipo “oggi a me, domani a te”. E aggiungo che chi scrive si è sempre fatta in quattro per sottolineare la bravura delle scrittrici di ultima generazione, delle quali, non ho dubbi nessuna avrebbe detto le fregnacce uscite dalla bocca in una sola volta dell’autore, addirittura sull’Italiano. Dell’intervista, più volte riascoltata, rimane più che altro impressa solo la venustà dell’intervistatrice.
Che si possa recensire con animo tanto inasprito capisco che sia molto arduo, ma la sincerità paga sempre.
Va detto al giovane autore che dai cani di Dickens allo spaghetto dei due dalmata innamorati, dal prolifico LaFontaine alle signora Bush o Nixon che fecero addirittura scrivere un libro al loro labrador retriever o allo cocker spaniel del secondo, probabilmente apportatore di milioni di voti, dalla zucca di Cenerentola all’insopportabile Grillo Parlante, di animali ciarlieri ne abbiamo visti molti, quindi, originalità zero al quoto.
Dei pericoli di un bosco, siamo tutti consapevoli da Biancaneve in poi, ma devo confessare che mi fa più impressione vedere due animali che si dilaniano piuttosto che due supereoi che si disintegrano con vari raggi laser.
La storia è breve: vita, morte e miracoli, si diceva in un mondo tutto maschile, dove le figure femminile sono pressochè ignorate e tirate via sgarbatamente, dall’odiosa madre, alla sorella incestuosa, all’innamorata presto sedotta e ingravidata, Archi appartiene a una generazione di maschi ottocenteschi, senza dubbio, come il suo autore. Non posso tacere invece il grande inno all’amicizia, sia con vecchia volpe che col cane che con quel tenero riccio, che compie l’unico gesto memorabile del libro, quello di strapparsi con sangue e dolore dal dorso un aculeo per fornire all’amico una penna più resistente. Si,’ l’amicizia comporta anche sacrifici, ma questo riccio, costretto fra la gelosia della moglie e l’atteggiamento sufficiente dell’amico, è proprio un bel simbolo.
Caro giovane autore, di fortuna ne hai avuta tanta, fattelo dire.
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