“Avevo vissuto immersa in un dolore sordo così a lungo da non farci più caso, neppure mi accorgevo di come attutisse le mie sensazioni”. E’ una premessa fondamentale, che produce nel lettore una sorta di “messa in guardia” per proteggerlo da ciò che lo aspetta.
Infatti di “bello” nel libro “ Tra le nostre parole” di Katia Kitamura, c’è solo lo splendido viso dell’autrice, mentre una vicenda sicuramente interessante si snocciola sotto i nostri occhi con una sorta di indifferenza, come se l’IO narrante fosse piuttosto uno spettatore.
La protagonista è una giovane giapponese che lavora come interprete alla Corte Penale Internazionale dell’Aja, che, per dirla in breve, si occupa dei peggiori crimini del mondo.
Proveniente dagli Usa, è disorientata profondamente dallo stile di vita degli olandesi e si ritrova a vagare in un mondo e fra gente che trova respingente, proprio lei che ha sempre cercato un luogo da chiamare “casa”.
Nell’intreccio delle vicende che ci fa vivere c’è un uomo lasciato dalla moglie, un’amica direttrice di una celebre galleria d’arte e l’ex presidente di uno stato africano, che ha commesso un numero indicibile di crimini e la cui etica tormenterà la giovane donna nel profondo facendole mettere in dubbio tutte le sue certezze sull’amore, sulla professione, sulla vita.
Lo stile con cui Katie Kitamura ci narra parte proprio da quel dolore con cui abbiamo esordito, che la intride al punto da farla sembrare indifferente. Molto riservata e chiusa in se stessa, svolge egregiamente il suo lavoro, sempre più sgomenta dalle testimonianze che traduce, sempre più sola per la partenza dell’amato alla ricerca di salvare i resti del proprio matrimonio, ma al tempo stesso molto legato a lei.
Tutto si muove adagio adagio, come in un acquario. Ci si aggira nel mondo della politica, con un tentativo forte di manipolazione da parte del tiranno, ma anche molto nel mondo dell’arte e segnalo una cosa carina: non ci era mai capitato di trovare tracce del libro che avevamo letto in precedenza: ( L’ultimo dipinto… etc), In questo segnalo una vibrante considerazione che l’autrice fa sulla pittrice secentesca olandese Judith Leyster.
Riporto un giudizio di tipo artistico che la ragazza formula mentre partecipa al vernissage della mostra dell’amica. Osserva “ …il quadro di una fanciulla che, evidentemente il pittore aveva colto in due stati d’animo differenti, riuscendo a contenerli in un’unica immagine. Doveva esserci stata una moltitudine d’istanti catturati sulla tela. Forse era quella stratificazione – una specie di sfocatura temporale o di simultaneità – a distinguere in definiva la pittura dalla fotografia”. Mi sembra davvero un’intuizione profonda.
L’Io narrante, pur ottenendo successo completo sia sul fronte dell’amore che su quello del lavoro, sceglierà una via di fuga, tornando a Singapore, dove vive sua madre. Una rinuncia? Una persona insicura e dubbiosa che getta la spugna? Un disarmo?
“ Tra le nostre parole, o tra due o più lingue, sono in agguato voragini che possono spalancarsi senza preavviso” scrive Katie e non per niente si possono ritenere più letali che una spada.
Katie Kitamura, l’autrice, è una quarantenne americana ammirata da Obama e finalista con quest’ultimo romanzo (tra i 10 migliori del 2021 per il New York Times) al Premio Joyce Carol Oates 2022.
Leggo in Rete che si accosta l’opera di questa autrice a “ Un cuore così bianco” di Xavier Marias e non posso davvero mancare di dire che ad ogni recensione bisognerebbe premettere un cartello di “senso proibito”, con la scritta “ Procedere con cautela”.
No, non c’è proprio niente di eguale fra di loro. E questa sensazione mi spiega perché alla fine del libro mi si presenti con insistenza alla mente l’immagine di un elettroencefalogramma piatto. Sì, piatto. Chiedo venia, ma è così. A presto, amiche mie.
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