Con fulminea verve, Benjamin Franklin ha scritto che “tre persone possono tenere un segreto solo se due di loro sono morte”.
Mi sembra l’incipit più azzeccato per una panoramica a corto raggio sulla segretezza di un segreto. L’etimo, si sa, viene dal latino secernere che vuol dire mettere da parte, tenere in disparte, ma mi domando se siamo la gabbia o l’ingabbiato. Vi sembra un azzardo dire che siamo impastati con i nostri segreti? A me, no. Anzi, li ritengo indispensabili per la sopravvivenza sociale.
Ci sono segreti di tanti tipi. I più diffusi sono ovviamente quelli sessuali. Ma ce ne sono di corrispondenti a ogni peccato capitale, perché al sesso segue la corruzione – dal salto del tornello del metrò alla complicità nell’evasione fiscale che compiamo tutti nel momento in cui accettiamo di pagare in nero l’idraulico o il falegname: e poi l’invidia lacerante, la menzogna, gli innumerevoli impulsi omicidi che proviamo per i nostri capi e per le persone che disprezziamo.
La religione ci offre molte comode scappatoie. Dal Confiteor – pensieri, parole, opere e omissioni – pensate, omissioni! È la cosa più frequente che facciamo- alla geniale invenzione della confessione – sembra nel Concilio lateranense del 1215- che ci fa uscire alleggeriti come piume dal confessionale, dopo avere mostrato un tardivo e probabilmente bugiardo pentimento e ci fa decollare come un pallone areostatico cui abbiamo scaricato tutta la zavorra.
Ma i nostri segreti continuano a farci soffrire. Mark Twain ha scritto che ognuno di noi è una luna, ha un lato oscuro che non mostra mai a nessuno.
Provate a ricordare “ Perfetti sconosciuti” il premiatissimo film di Paolo Genovese, in cui durante una cena fra amici intimi qualcuno ha la pessima idea di obbligare gli altri a mettere il cellulare in tavola e rispondere en plein air. Ne segue un completo ribaltamento dei ruoli fra il modo in cui appariamo e quello in cui siamo. Le vite di tutti i protagonisti sono intrise di segreti inconfessabili e il cellulare è splendidamente definito come la nostra “scatola nera”. E qualcuno di recente ha aggiunto che chi non ha segreti apra whatsapp davanti a tutti.
Tutto è ignoto, è un enigma, un inestricabile mistero: dubbio, incertezza e sospensione del giudizio, appaiono l’unica strada possibile. Ma la sofferenza?
Perché nei nostri segreti più inconfessabili c’è proprio la sofferenza.
Molti anni fa un amico mi ha raccontato la sua sconvolgente passione per una diabolica donna che lo aveva raggirato, tradito, ingannato con un’ambivalenza sottile. Era in quegli anni stata coniata una parola poco conosciuta dalla psicologa d’oltreoceano Dorothy Tennov: la parola limerenza, che pressappoco vuol descrivere uno stato emotivo caratterizzato da un intenso desiderio per un’altra persona, nelle sue varie fasi sino allo stadio finale ossessivo. Detto in soldoni, il tipo d’inebetimento che si prova quando si soffre per amore, con pensieri intrusivi, acuta sensibilità e distorte interpretazioni di eventi interni ed esterni.
I nostri segreti sono belli e brutti al tempo stesso: possiamo crogiolarci nel sogno di amare o essere amati, o desiderare qualcosa d’irragiungibile, ma anche nel tormento di tutto ciò.
A tutte le età abbiamo segreti, abbiamo retropensieri che neppure sotto tortura riveleremmo, intessiamo trame e progetti che sappiamo non si realizzeranno, ma in fondo la confessione è sempre una debolezza. Quanta voglia hanno i traditori di rivelare a moglie o marito di averli traditi pur di alleggerirsi l’animo da un peso diventato insopportabile. È lo sbaglio più grande che si possa fare perché non verremo mai davvero perdonati.
La pensa giusto Marquez che dice che ognuno di noi ha tre vite, pubblica, privata e segreta, anche se nulla ci rende così soli come i nostri segreti. E concludiamo in bellezza col solito adorabile Oscar Wilde che dice che il vero mistero del mondo è il visibile, non l’invisibile.
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