Io invece, non mi sono commossa. Adesso vi spiego. Alludo al fatto che in uno dei miei cinque club del libro, la mia magnifica “ coach ” ha scritto un commento molto toccante al libro che avevamo come “compito“ mensile. Si tratta di “ Tutto chiede salvezza” di Daniele Mencarelli, Premio Strega Giovani del 2020. Mencarelli è un uomo non bello, con una faccia tipo Pasolini, molto scavata, tormentata, e un tantinello viziosa, che spiega la ragione del grande successo che sta ottenendo fra giovani nelle sue frequenti visite nelle scuole: dipende dal fatto che lui racconta episodi sconvolgenti della sua “intensità di vita”.
Dunque il commento della mia “coach” intreccia le sue parole con quelle dell’autore e ne risulta una forbita prosa, in cui il messaggio è un caldo e umanissimo invito a guardare “ i matti” come persone normali, che hanno bisogno di prossimità e comprensione, di quell’amore di cui sono stati privati. Il racconto è autobiografico e narra di quando Daniele aveva vent’anni e, in un eccesso catastrofico di rabbia, compie un vero scempio distruggendo mezzo appartamento e procurando alla sua amatissima famiglia disastri materiali e spirituali.
Così viene costretto a una settimana in un centro TSO – Trattamento Sanitario Obbligatorio – dove vive fraternamente con cinque persone che hanno avuto o procurato traumi simili. La prosa di Daniele è bella, limpida, poetica. Quando è italiana però, perché per metà il libro è romanesco e a personalmente, se per l’autore questo voleva essere un mezzo per farmi sentire più vicina al popolo, mi ha soltanto infastidito. Credo che il racconto di Daniele sia piuttosto da definirsi una favola e come tale la prendo.
Ma chi è questa tipa arrogante che si attribuisce il diritto di sparare sentenze, potreste chiedervi voi. Come si permette? Ebbene, ora ve lo spiego: della faccenda sono piuttosto edotta non perché mi sia capitato di fare una settimana coatta, ma perché ho scritto una tesi di trecento pagine sulla malattia mentale, con duecento titoli di bibliografia. Sì, qualcosa ne so. Del prima, del dopo e del durante. E sottolineo che la tesi considerava la faccenda dal punto di vista dell’antipsichiatria, movimento sorto negli Anni Settanta con la famosissima legge 180, proposta dal professor Basaglia, che ha aperto i manicomi – che erano gironi infernali, e reso disperati milioni di famiglie.
Se Daniele ha presentato questa piccola comunità con un’aneddotica un po’ dolciastra e una fraternità travolgente – strano, finestre senza sbarre dove un paziente possa correre pericoli dando un biscottino a un uccellino o anche l’esplosivo amore di un “ frocio” – così si definisce lui stesso -, che fa sesso orale nei bagni o anche menu piuttosto rispettabili, visite quotidiane dei genitori, e via così. Ciò che ho imparato io con la mia ricerca filosofica è che in quegli anni la schizofrenia si attribuiva al fatto che il figlio fosse il “capro espiatorio” di una famiglia, in cui i messaggi di padre e madre erano contraddittori. Il buon libro di Daniele mette in scena un ragazzo amatissimo dalla famiglia, padri che imboccano di yogurt figli catalettici, bravi maestri che massacrano di botte moglie e figlia però sono tanto sensibili al canto degli usignoli.
No, non mi sono commossa, perché non ci ho creduto a questa favola tenera ed affettuosa e buon per Daniele se lui l’ha vissuta così.
Il caso poi ha voluto che immediatamente dopo, io abbia letto un libro molto chiacchierato come “ Topeka School” di Ben Lerner, autore statunitense di grande spessore, osannato dal popolo del “New Yorker” o di “ Granta” che racconta una storia molto simile. Qui siamo nel Kansas e, cercando di scansare le immagini trumpiane, viviamo una storia molto appassionante, che si svolge in un campus, centro di eccellenza per la psicoanalisi e la psichiatria, con voci alternate.
Il protagonista Adam, che è figlio di due psicoanalisti molto famosi, ha avuto una commozione celebrale da piccolo per una caduta e per tutta la vita ha subito allucinazioni, è stato vittima di strani episodi ed è entrato in questo centro per farsi curare, dove ha conosciuto persone del suo genere ed è diventato lui stesso psicoanalista. Umorismo ebraico, scrittura molto colta, parole che non conoscevo e che neppure sono andata a cercare, sicura com’ero che non le avrei mai più incontrate nella mia vita.
Libro profondissimo, che affronta le stesse problematiche da un’ottica farmacologica e con una attenta analisi dei soggetti malati. Insomma, non come i dottori del TSO che si addormentavano ascoltando i pazienti. Quindi, diciamo, un salto carpiato dai poveri di Trastevere ai privilegiati che si possono permettere i più grandi nomi della psichiatria e ne pensano tutto il male possibile.
Anch’io sono per la farmacologia. Solo e solamente per quel metodo che, considerando che il nostro corpo è un laboratorio di chimica, interviene a gamba tesa per rimettere in riga i parametri deficitari. Certo poi le parole servono, l’attenzione serve, l’amore serve.
Ma considerando le due storie, per combinazione lette di seguito, non ho dubbi per preferire il secondo libro. Inoltre mi irrita quel tono agrodolce che Daniele usa per descrivere i comportamenti di persone che sono malate. La malattia mentale non è una cosa su cui gingillarsi. Le famiglie non possono subire lo strazio subito nel ’68 di essere lasciate sole a gestire il proprio malato perché la legge 180 è stata varata prima di predisporre le indispensabili strutture necessarie. Ma tornando allo stile e ai due libri, do il mio voto a Lerner e lascio il poeta Mencarelli a produrre le sue ottime poesie.
Renata Annabke dice
Per adesso Grazie della tua magistrale recensione !! Ti chiamo al telefono per darti un saluto e un grazie a viva voce!
cesi dice
Carissima Paola condivido che molte parti del libro sono dialettali, anche io non ho particolarmente gradito anche se fanno capire i personaggi e il loro vissuto, forse si è un po’ romanzato però Daniele ha scritto in modo dolce un mondo di sofferenza.
Ha fatto emergere lo squallido ritratto degli ambienti ospedalieri, dei medici e del personale non certo preparato ad affrontare persone con gravi disturbi mentali….ma tutti convivono in queste miscellanee di differenze facendo la loro parte
I malati si sentono accettati per quello che sono, con le loro fragilità, nasce una solidarietà fraterna…
Il bello del libro è che Daniele cerca la salvezza per dare un senso al suo gesto di rabbia, senza forse trovarla fino in fondo … QUI DENTRO SIAMO TUTTI VITTIME E CARNEFICI DI NOI STESSI”
l’esperienza della malattia fa sentire la nostra vulnerabilità e nel contempo il bisogno dell’altro
Quando siamo malati l’incertezza, il timore, lo sgomento pervadono la mente e il cuore, ci sentiamo impotenti perché la nostra salute non dipende dalle nostre capacità ..e il senso di tutto ciò a volte non riusciamo a trovarlo, chi ha fede si rivolge a DIO , alla scienza alla vita ma spesso non troviamo subito le risposte alle nostre domande…..
un caro saluto