Scrivo a botta calda, per non perdere neppure un frammento delle sensazioni, che “I nostri cuori perduti” di Celeste Ng ti lascia addosso. Una serie sfumata di caldo e di freddo, che trascolora l’uno nell’altro e che comunque procura angoscia e smarrimento.
Se il termine Utopia, intesa come Società Ideale è stato coniato da Thomas More, è stato il filosofo John Stuart Mill, dopo quasi tre secoli, ad opporre la cosiddetta Distopia, come simbolo del fallimento di quelle illusioni. Sostanzialmente vuol dire la preveggenza di un pessimo futuro. In realtà le intenzioni della Ng sono lievemente diverse, intendendo che la situazione da lei descritta sia una sintesi di presente-passato-futuro, perché eventi devastanti sono già accaduti, esistono tuttora e non è dissennato il supporre che non possano che peggiorare, a meno che non intervenga qualcosa che definirei come “ Una presa di coscienza” a mutare il corso delle esistenze.
Siamo in America, in un’epoca non troppo lontana: c’è stata una Crisi devastante, attribuibile alle speculazioni economiche cinesi che hanno disintegrato il Sistema statunitense. Viviamo nel Peggio assoluto: fame, miseria, disoccupazione. Ma il Sistema reagisce e promulga una legge di enorme ambiguità – il cosidetto PACT- , un acronimo che ingloba la protezione della cultura e delle tradizioni americane nell’avversione per i “ musi gialli”.
Il piccolo protagonista del romanzo si chiama Bird, ha 11 anni ed è figlio di un professore universitario e di una poetessa cinese. Il suo viso è inequivocabile. E’ un orientale, uno dei musi gialli. E poiché i PACT contemplano la estromissione dei figli dalle famiglie incolpate di mille accuse diseducative, Bird e suo padre Ethan hanno dovuto rinnegare l’amatissima Margaret, i cui versi sono stati messi all’indice e che, per proteggere suo figlio, ha dovuto fuggire. I due sono poverissimi e vivono in uno studentato.
Una lettera molto sibillina che Bird cerca di decifrare, lo induce a scappare e a seguire le tracce della madre, iniziando un viaggio a ritroso nel suo passato, trovandola e pretendendo da lei la spiegazione di tutto quello che è successo.
Vissuta come un terrorista, ricercatissima, Margaret si sta facendo portavoce di tutti quei bambini che sono stati sottratti alle famiglie, che hanno taciuto per timore di non vederli più.
Sarà proprio Margaret ad innescare la presa di coscienza di chi ha sempre tenuto la bocca ermeticamente chiusa nel terrore di perdere definitivamente le proprie creature, con un geniale piano, di cui non voglio e non posso togliervi il gusto della sorpresa.
Il libro è un inno all’amore tra madre e figlio, una denuncia contro le infamità del razzismo, contro l’ipocrisia e la violenza del Sistema. Si dovrebbe parlarne per ore, perché, nonostante l’angoscia che pervade ogni pagina, la scrittura di Celeste è assolutamente splendida, maturata di libro in libro, da “ Tanti piccoli fuochi” a “ Le parole che non ti ho detto”.
Da mettere in libreria e da rileggerne qualche pagina di tanto in tanto, 400 pagine di altissima umanità, una panoramica di tutto il Bene e il Male del mondo. Una conclusione che i redattori definiscono meravigliosa, ma che io invece ritengo amarissima, per spiegare il caldo e il freddo che mi sento ancora addosso.
Non va taciuto il valore poetico della sua prosa, che spesso ti avvolge come una coperta morbida e ti protegge proprio come il cappotto della sua mamma che Bird si ritrova addosso dopo una notte di paura.
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