Mettiamo immediatamente le carte in tavola.
Io, verso i dieci anni, ho letto “Il diario di Anna Frank” e mi sono innamorata del mondo ebraico: e sono stata affascinata dalle successive centinaia di libri sulla loro Storia e sulle loro storie e ritengo che tutto ciò che l’ebreo errante, anche se ricco e potente, ha subito nel corso dei secoli, non potrà mai -DICO MAI – essere remunerato da quanto gli è stato inflitto.
E’ difficile parlarne proprio in questi giorni, quando è in atto un ennesimo scannamento sulle sacre pietre della Città Santa, ma è indispensabile fare un ulteriore piccolo sforzo, prima di addentrarsi nella lettura di “ Ogni mattina a Jenin” di Susan Abulhawa. Ho voluto precisare da che parte sto, per cui mi è risultato particolarmente doloroso rileggere a dieci anni di distanza dalla pubblicazione questo libro.
Intendiamoci: non è che ignoro che i sionisti, cioè quei figli e nipoti dei miti professori/sarti/negozianti che seguivano disciplinatamente e fiduciosamente i nazisti nel “campi di lavoro” o gli stalinisti nei gulag, abbiano per decenni messo a punto le più sofisticate tecniche di sopravvivenza, di difesa, di rivalsa, e armi potentissime, e i servizi segreti migliori del mondo a scapito dei palestinesi, che, a mio avviso sono stati serviti come capro espiatorio su un piatto d’argento al resto del mondo, dal vastissimo mondo arabo, che avrebbe avuto la possibilità di accogliere e sovvenzionare i malcapitati.
Apriamo una parentesi circonflessa e consiglio a tal proposito la lettura del magnifico libro di Amos Oz “ Storia d’amore e di tenebra” , in cui si racconta come sia stata fremente l’attesa delle decisioni dell’ONU, che riconoscevano lo Stato di Israele. Appena un minuto dopo l’annuncio, sono iniziati quaranta giorni di bombardamenti sulla Città Vecchia di Gerusalemme. E questo è stato il primo tributo del mondo arabo al mondo ebraico. Chiusa parentesi circonflessa.
Sul libro, la farò breve. L’Io narrante è la terza esponente generazionale di una famiglia palestinese, che viveva in una specie di eden a Jenin, un mondo pastorale, bucolico, idilliaco, dove tutti sono bravi, buoni, sapienti, dolci, colti e adorabili. Grande famiglia carica di amore, che d’improvviso viene sradicata dal suo campo ricco di olive e di fichi e di miele e messa in un campo profughi sotto l’apparente egida dell’ONU.
Il libro è fatto di 400 pagine, in cui si descrivono tutte le strazianti sevizie che vengono loro inflitte, cose senza precedenti. La crudele devastazione di Israele avanza di spietatezza in spietatezza, mentre la nostra Amal, l’Io narrante, riesce a laurearsi, sposarsi, andare in America con lo scopo di ottenere i visti per la sua famiglia, fare una figlia e con lei tornare a cercare la casa dei suoi avi ormai in mano ebree.
Mai, dico mai, nella mia lunga vita letteraria, ho letto un libro di tale odio manicheo, sapientemente impacchettato e infiocchettato dagli editor di Feltrinelli, che Susan cita numerosi nella postfazione, in uno strumento politico micidiale come uno dei mille missili che quotidianamente sono sganciati su Gerusalemme e Tel Aviv.
Mai, dico mai, ho assistito alla trasformazione degli israeliani in mostri crudeli, al punto che certe pagine sono insopportabili da leggere. Mai, dico mai, ho assistito alla sacralizzazione di un mondo palestinese così adorabile, così dolce, pieno di delicatezza e sensibilità. Mai, dico mai, ho letto un libro così parziale, da trasformare le vittime in carnefici e i carnefici in vittime. Da trasformare gli israeliani in creature feroci e diaboliche, molto peggio dei loro torturatori di destra e di sinistra.
Ora, proviamo a operare una separazione, proviamo a giudicare il libro “ In Sé ”: come è scritto e che messaggio vuole trasmettere. Il libro è scritto bene, anche se non si possono non trovare un po’ stucchevoli certe sdolcinature sull’amore e sull’amicizia, e, certamente, dimenticando tutto quello che ho scritto finora, non si può evitare di provare orrore e solidarietà nei confronti di questa povera famiglia e dei loro amici travolti da un impietoso destino.
Purtroppo resta potente il dubbio sulla veridicità del racconto, se i famigerati massacri dei campi profughi di Sabra e Shatila, operati dai Falangisti col tacito consenso degli israeliani, portati come esempio dall’autrice, della ferocia ebraica, non apparissero sui giornali di tutto il mondo, come ” Il supplizio di Israele”.
Non sapremo mai sino in fondo la verità, ma ormai è tardi per cambiare fazione. Ciascuno di noi ha la sua verità, e il destino dell’ebreo errante, ormai capacissimo di difendere se stesso, sarà sempre oggetto di contrasti insanabili.
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