Personalmente non ho mai attribuito grande valore al Premio Bancarella perché non è un premio letterario, ma un premio al numero di vendite. Puro marketing dunque, fondato in genere sul passaparola e ho sempre avuto qualche sospetto che chi me lo suggeriva non avesse un QI superiore al mio.
Dunque parto subito male e mi rassegno al fatto che la nostra coach delle Menti Aperte pensi che dopo un libro di spessore, noi Menti che forse non siamo dopotutto così Aperte, abbiamo bisogno di una pausa – pranzo.
Ne consegue che mi sono messa a leggere la gettonatissima “Portalettere” di Francesca Giannone, con un languore tipicamente estivo e uno stato di fatalismo sicuramente inanellato e proporzionato all’affetto che mi lega al mio club di lettura.
Poi, si sa, leggi le ululanti recensioni, ti commuovi anche un po’ perché l’autrice ha voluto rendere omaggio alla sua nonna e questo l’ho fatto anch’io nelle “Voci degli altri” e procedi con coraggio ad affrontare un piccolo libro di modesto valore. Non è che col passare delle pagine lo stato di abbattimento si modifichi, per carità, è che vieni comunque presa dalla storia e finisci per interessarti alle avventure della prima postina femmina di un borgo del Salento, che diventa un filo invisibile tra gli abitanti del paese e il motore di una trasformazione inarrestabile.
Infatti nell’anno del Signore 1934, torna al paese natale Carlo, trionfante, dopo avere impalmato la ligure Anna, dal carattere certamente non facile, ma comunque legata a lui da vero amore e che mette a soqquadro il paese con le sue assenze dalla chiesa, le sue idee moderniste, i suoi pantaloni, la sua battaglia per il voto alle donne. I sentimenti suscitati sono quasi tutti di ordine negativo, salvo quello di Antonio, fratello di Carlo, che nel momento stesso in cui vede Anna scendere dalla corriera ne resterà folgorato per tutta la vita.
Per vent’anni Anna sarà la portalettere e la depositaria dei segreti del paese, dagli anni ’30 fino agli anni ’50, passando per una guerra mondiale e per le istanze femministe. Ed è anche la storia di due fratelli inseparabili, destinati ad amare la stessa donna. Beh, che volete che vi dica, un libretto come tanti, di quelli che narrano le differenze fra il nord e il sud.
Mi sono molto più divertita nella lettura della seconda opera del nostro guru, prof Letterio Gerli, dal titolo “Il viaggio dell’espressione”. Vi dico subito che, come ben sanno i miei follower e le affettuose Menti Aperte, cui, occorre dirlo, il libro è dedicato, ho il sospetto che la prolificità del Nostro non gli permetterà di fermarsi alla seconda stagione della sua serie, perché, a differenza della noia letale dei libri di storia dell’arte, lo stile di Letterio è estremamente brillante, perché, venendo meno al canone di storiografia artistica classico, qui non ci si affida a un filo conduttore cronologico, ma ci si sente come se si stesse usando un caleidoscopio e, virando dolcemente intorno al cilindro, ci si trovasse ogni tre o quattro pagine in un ambiente e in un’epoca diversa.
E’ il vero atout del caro amico Letterio che, per quanto mi riguarda potrebbe continuare sino alla sesta stagione o anche fino alla 26 di “Doctor Who” o alla decima di “ Stranger Things”, spaziando argutamente e sapientemente dai Nativi Americani a Waterhouse, dagli amati preraffaelliti all’Annunciazione del Beato Angelico, dal Velasquez della Resa di Breda, alla Venezia di Monet, ai treni di Boccioni. Buon lavoro, Erio.
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