Confesso di non avere mai particolarmente amato la letteratura sudamericana, eccezion fatta naturalmente per Marquez e Amado, di cui ricordo a memoria addirittura certi brani, dove svettava la magia mixata all’ironia, che credo la loro generazione non abbia trasmesso geneticamente alla successiva.
È stato per questo che ne ho preso un po’ le distanze, perché ormai la loro visione del mondo un po’ onirica e fiabesca mi aveva deluso. Prima di passare al libro di cui parleremo oggi e cioè “ La figlia unica ” di Guadalupe Nettel, metto in guardia TUTTE LE NONNE e le madri in attesa di tenersi alla larga da questa lettura. Perché, nonostante le entusiastiche affermazioni di risvolti e di quarte di copertina, ci sono delle pagine così strazianti che non inducono alla fecondità.
Tutto ciò premesso, per gli stomaci forti, per coloro che non patiscono troppo la descrizione del Male e della sofferenza, si può dire che “La figlia unica” sia un buon libro, pieno di riflessioni profonde, in cui le opposte fazioni hanno egualmente diritto di fare sentire le loro voci.
Perchè ci sono sicuramente tre scuole di pensiero nelle tre donne protagoniste di questa storia, che mi pare sia pure vera. Prima di parlare di loro però merita una citazione l’unica figura maschile che mi sembra ottima, per una volta tanto. Il padre. Un uomo buono, coraggioso e pragmatico.
E ora affrontiamo il drago. Cominciamo col dire che l’amore e l’amicizia fra queste tre figure sono piene di autenticità e prendono pieghe inaspettate che danno alla vicenda il gusto dell’imprevisto.
Laura e Alina si sono conosciute a Parigi quando avevano vent’anni. Ora sono tornate in Messico. Laura ha affittato un piccolo appartamento e sta finendo la tesi di dottorato mentre Alina ha incontrato Aurelio ed è rimasta incinta. Tutto sembra andare per il meglio.
Sino ad allora le due amiche si erano spesso disputate sull’opportunità di riprodursi e anche questo dettaglio, è ricco di risvolti preziosi dal punto di vista sociologico, perché oggi come non mai il dibattito sulle vantaggiose possibilità delle donne al di fuori del matrimonio farebbe inorridire i loro avi messicani. Ma il mondo ora è una vasta ragnatela telematica nella quale siamo coinvolti tutti.
La questione si aggrava quando un’ecografia mette in evidenza che il cervello del feto è privo delle sue circonlocuzione laterali. La bimba che nascerà avrà come unica prospettiva la morte quasi immediata.
È Laura a narrarci i dilemmi della coppia, mentre anche lei riflette sulle incomprensibili logiche dell’amore e sulle strategie che inventiamo per superare le delusioni. E infine c’è Doris, vicina di casa di Laura, madre sola di un figlio adorabile ma impossibile da gestire. Ma poiché la carne al fuoco è troppa, io lascerai da parte le sollecitazioni materne che Laura prova per il figlio della vicina e le avventure del nido di cuculi sul suo balcone, metafora non banale.
Ma la bambina non muore e qui assistiamo a quello che non esito a definire prodigioso e cioè il braccio di ferro che Alina intesse con la Natura, la caparbietà con la quale si rifiuta anche solo di pensare di usare una fialetta letale che i medici le hanno consegnato per usarlo a sua discrezione, mentre osserva ogni giorno quello che potrebbe essere l’ultimo respiro di sua figlia. E Alina che s’innamora di quella bambina a metà, sembra il punto nodale per indurci a una riflessione non da poco. La maternità è così ricca di incognite e sfumature, ma allo stesso tempo forza, dolcezza e sensibilità.
E poi entra in gioco il personaggio che a me è parso il più inquietante e pieno di tormenti segreti. Marlene è una giovane educatrice che si offre di curare la piccola Inés. Alina e Aurelio inizialmente sono entusiasti della ragazza. Eppure, dopo qualche tempo, Alina inizia ad essere gelosa della tata e scopre che il suo attaccamento eccessivo ad Inés è dovuto al fatto che la donna non può avere figli. E ad ogni morte di creatura che si prende in carico, lei ricomincia da zero, in una eterna missione di avere per sé un nuovo essere umano.
In tale realtà Nettel costruisce una parabola sulla fragilità umana nel rendere per toni brutali e teneri lo smarrimento generato dalle paure e dai desideri, dalle attese e dal dolore. Ho trovato nel leggere le innumerevoli pagine della promotion alcuni fantastici versi di Milarepa: “Cercando di essere felici, si buttano a capofitto nella propria sofferenza”. E mi ha fatto tornare alla mente il viso della mia pedicure – ora la categoria è quasi estinta, fatta fuori dalle corazzate cinesi-. Questa donna aveva un figlio tetraplegico, cui doveva fare tutto. Lo portava anche alla Scala.
Non sono mai stata veramente capace di capire se il sorriso sulle labbra che ostentava molto spesso fosse autentico oppure una maschera che non si poteva più togliere. Perchè credo che lo strazio di avere un figlio malato possa corrispondere alla perfezione alle parole di Milarepa.
Poi però ci sono le persone buone, generose, coraggiose, piene di sincera dedizione agli altri per lenire le loro sofferenze. Ma a quelle occorre un altro pezzo di Paradiso, che Dante forse non ha fatto in tempo a scrivere.
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