Gira voce che il dolore ci renda più forti. A mio avviso, il dolore è simile all’acido nel quale i cartelli colombiani o altra criminalità dissolvono i corpi di persone non gradite. Ma a casa nostra il dolore invece fortifica.
Perché?
Mentre quei furbacchioni dei Padri Fondatori, guidati da Benjamin Franklin, il 4 luglio del 1776 nella Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America, per la prima volta nella storia del mondo, stigmatizzano il diritto alla Felicità – oltre che alla Vita e alla Libertà- ( seguendo – la cosa fa sorridere – il suggerimento del filosofo napoletano Gaetano Filangeri) , qui invece, duole dirlo, noi abbiamo inventato una melensa retorica del dolore, che affonda le radici nei Ricordi di un’Educazione Cattolica, per dirla con Mary Mc Carthy. Sì, duole dirlo, perché in realtà non ci sono premi alla sofferenza.
Questa non è la Svizzera, non si può rimanere neutrali di fronte a una questione del genere. Non esiste il Grande Disegno, sono tutte fake news. Le cose accadono perché noi compiamo atti che producono fatti, in una meravigliosa convergenza di causa ed effetto. E’ ovvio che non mi sogno neppure di parlare delle disgrazie piccole o grandi, personali o collettive, di cui possiamo essere oggetto, ma soltanto di ciò che avviene nella nostra anima, quando è invischiata nella carta moschicida del dolore.
La faccenda mi fa stare male da pazzi: Umberto Eco scriveva nel Nome della Rosa che c’è una sola cosa che eccita gli animali più del piacere ed è il dolore. La vita è resa però insopportabile dal fatto che i dolori si danno il cambio, si susseguono senza tregua, anche se Shakespeare con arguzia aggiungeva che non c’è mai stato un filosofo che potesse sopportare pazientemente il mal di denti e Mark Twain sottolineava che Adamo ed Eva ebbero molti vantaggi, ma il principale è che sfuggirono alla dentizione. E per concludere i riferimenti dotti, Pavese scriveva nel Mestiere di Vivere che …soffrire non serve a niente, limita l’efficienza spirituale, è colpa nostra ed è una debolezza.
Non è che sto pensando di proporvi una crociata all’insegna della gioia sfrenata, non sono mica scema. Quella su cui vorrei ragionare con voi è l’essenza del dolore, che troppa parte ha nella nostra esistenza e che merita perciò di essere fortemente denigrata, senza quella briciola del conforto che ci viene spesso offerta come merce di scambio per un’altra vita.
Non credo ci sia un paradiso per noi e neppure le 72 vergini bellissime dai grandi occhi neri in quello di Allah, e neppure una stimolante gerarchia di reincarnazioni da esseri inferiori a esseri superiori in quello di Buddah.
Siamo qui e finiremo con un fremito del black&decker che imbullona l’ultima vite sulla cassa, io temo. Quanto invidio coloro che credono, per carità, coloro che hanno quella luce particolare e vagamente irritante negli occhi e che sono capaci davvero di trovare una gioia così grande dentro se stessi. Ma io non ce la faccio. Non ci basta questa esistenza? Non ci sono abbastanza triboli e abbastanza gioie da esserne più che soddisfatti? Stiamo rasentando i cento anni di vita, cosa vogliamo di più? Quanto tempo bruciamo nel dolore col rischio di impedire a qualcosa di meno brutale di venirci incontro?
Come certamente sapete molti scienziati si sono messi in moto per stilare una scala del dolore con relativo stress.
La perdita di una persona, una cosa o un’idea che sia divenuta una parte del Sé e abbia assunto un ruolo insostituibile nell’appagamento dei bisogni, può determinarsi nella realtà o solo nell’immaginazione. Una perdita reale può riguardare sia la morte di un essere umano o di un animale, che la perdita di una parte del corpo o di una funzione relativa, oppure di un bene prezioso come la casa o il proprio patrimonio, così come il crollo di un ideale politico o religioso. O il delirante crepacuore di una passione infelice.
Gli studi di Holmes e Rahe (1967) hanno appunto raggruppato in una scala i vari tipi di cambiamenti della vita umana sperimentati come stressanti, prendendo in considerazione un insieme di eventi psicosociali che possono capitare a tutti nella nostra società. Al primo posto la Morte del coniuge, seguono a ruota il Divorzio, la Condanna in prigione, la Scomparsa di un familiare stretto, una Malattia personale, il Licenziamento, la Pensione, e via dicendo sino al 42 posto che include persino il Natale, che può essere vissuto come momento di solitudine e di abbandono.
Naturalmente si arriccia il naso nel leggere questa classifica, perché è opinabile. Tuttavia è stata creata dopo avere intervistato 5000 persone. E lo stress, infatti, è una modalità di adattamento alla realtà, che comporta fatiche e malesseri non indifferenti. È per questo che una riflessione sul dolore e le sue conseguenze non ci possono che indurre a rifiutare ogni retorica della punizione e del premio, ma soltanto a una faticosa accettazione di ciò che ci accade. Senza orpelli.
Chi è senza dolore lanci la prima pietra. E’ questa, la vita. Però non aspettiamoci ricompense, neppure nel settimo cielo. Possiamo contare soltanto sulla nostra inesauribile forza d’animo, un pozzo senza fondo da cui estrarre secchiate a volontà.
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