Permettersi di fare una recensione esige tre caratteristiche fondamentali: esperienza, competenza, e infinito amore per i libri. Il terzo elemento comporta che, specie se il recensore è a sua volta scrittore, non venga mai a mancare una sostanziale forma di rispetto per l’autore, e quindi una goccia d’indulgenza, soprattutto quando il risultato delude, tenendo conto ovviamente che ci sono infinite variabili.
Nel nostro caso, affrontiamo “ Il ritorno ” di Hisham Matar dopo una carneficina palestinese e una carneficina vietnamita, cui una carneficina libica può risultare un po’ troppo sfiancante per un inoffensivo club del libro che, mutatis mutandis, può aspirare, come è scritto anche nella Costituzione Americana, al diritto alla felicità.
Comunque, reprimenda a parte, il libro è impeccabile dal punto di vista stilistico, scritto così bene da essersi meritato il premio Pulitzer, che, come abbiamo più volte ripetuto, non tradisce mai. E non facciamo passare sotto silenzio la magnifica traduzione della nostra grande Anna Nadotti.
È la storia di un esule che di professione fa lo scrittore di tutto rispetto, ed è una figura di spicco nell’ambiente culturale internazionale. Londra è la città in cui vive, anche se quando apprende la notizia dell’arrivo dei rivoluzionari nella prigione di Abu Salim, si trova a New York. Sconvolto dalla scomparsa del padre, Hisham si attiva con ardore e passione, interpellando le sfere politiche, Amnesty International e le altre organizzazioni per i diritti civili, i media, la diplomazia.
Dopo trent’anni torna nella perduta Libia, che lasciato sotto re Idris e ritrova sotto Gheddafi. Il suo animo è esulcerato dalla prova, perché mai in tutto questo tempo ha potuto dimenticare suo padre, leader dell’opposizione al dittatore, dalla cui cattura in poi, non si sa più neppure se sia vivo. Gira voce che il mitico Jaballah Matar fosse stato condotto nella terribile prigione di Abu Salim, a Tripoli, “conosciuta come l’ultima fermata, il posto dove il regime spediva coloro che intendeva dimenticare”.
Questa, grosso modo, la trama. Il magnifico stile non impedisce che, a mio modo di vedere, il libro presenti due grosse pecche. La totale mancanza di pregnanti figure femminili – a parte due o tre fugaci apparizioni di madri in funzione gastronomica, e, dato che Hisham ha 130 cugini, la ripetizione ossessiva degli incontri e delle loro tragedie durante la prigionia. È per questo che mi sembra un libro un po’ talebano.
Un mondo maschile molto chiuso nei suoi riti, un rapporto di esacerbante e tormentosa dipendenza tra padre e figlio, due figure forti e potenti; quella del padre è talmente potente che il figlio non riesce vivere senza sapere che fine abbia fatto e interrompere la inesausta ricerca di tutte le persone che riescano a fornirgli un frammento di verità sull’esistenza in vita dell’amatissimo genitore, anche solo una parola sentita o scritta.
L’ossessione riduce il figlio quasi alla voglia di non sopravvivere, sicuro com’è che il padre sia morto. Ma di volta in volta una briciola di verità in una testimonianza risveglia una insaziabile speranza, una sconvolgente nostalgia, sulle quali Hisham scrive pagine molto profonde.
Mai ha smesso, dal momento in cui aveva 19 anni e il padre era stato sequestrato dal regime, di tormentarsi, rimandando di continuo quel ritorno in patria che gli avrebbe potuto far ritrovare la sua identità perduta. La conclusione della ricerca restituisce al protagonista una nuova forza, posandosi con sensibilità sul dolore sul mondo e dei giovani caduti durante la rivoluzione contro Gheddafi; non mancano forbite citazioni di letteratura e arte, percepite come antidoto al dolore.
Nell’insieme quindi un libro di buona fattura che ha meritato il suo Pulitzer, anche se talvolta ci ha fatto sospirare di fatica.
Sergio dice
Devo ancora leggerlo ma confesso di essere prevenuto la violenza alla Tarantino tanto trucida da essere divertente la apprezzo, quella vera non la sopporto piu : troppa angoscia, perche’mi devo fare del male?