A Princeton ha vissuto per un paio di anni mia figlia e di conseguenza conosco bene quelle casette col portico, il prato davanti e i vicini solleciti a comunicare fra loro. Per questo immagino come Baumgartner accogliesse le scampanellate che lo tenevano in vita, piccoli eventi che movimentavano la sua vita e che Paul Auster dipinge con sapienza.
Nel frattempo, fra l’uscita del suo ultimo libro e il momento in cui sto scrivendo, Auster ci ha lasciato e dunque è facile leggere le sue parole come un testamento spirituale.
Di lui abbiamo letto tutto perché è stato uno degli scrittori americani più amati e più capaci di trasmettere il senso della vita oltreoceano.
Non mi stupisco che questo sia un libro di un altro settantenne come l’ultimo che abbiamo letto, che fondeva cultura e stati d’animo di Islanda e Giappone; perché nella generazione degli scrittori con cui siamo cresciute e che tanto ha inciso su di noi, ormai hanno tutti questa età e inevitabilmente il loro pensiero corre alla morte, che sentono approssimarsi adagio, ma inesorabilmente. Ma il libro, pur ammantato da una cappa scura, non ci opprime per nulla perchè l’abituale humour di Auster riesce a renderlo ironico e pungente e ad alleggerirne l’amarezza che pervade a poco a poco le nostre menti.
Qui si narra di Seymur B., accademico di filosofia, vedovo da dieci anni di una donna amatissima, senza la quale la vita è diventata insopportabile. Un’ondata di Cap Code, di quelle che soltanto chi conosce la potenza dell’oceano riesce ad immaginare, l’ha rapita, per cui l’esistenza di quest’uomo dimezzato annaspa fra piccoli incidenti quotidiani e la progressiva debolezza del corpo. Ma la debolezza del corpo è indotta soprattutto dalla debolezza dell’anima e con essa s’intreccia indelebilmente. La insopportabile solitudine per lui si trascina in una continua rielaborazione dei molti episodi felici che ha vissuto con Anna, di cui scritti e poesia si decide con riluttanza a rileggere aggravando la pena e la sofferenza. La vita è così, beffarda e diabolica, e fino all’ultimo ti travolge, nonostante quello che tu credi essere il tuo libero arbitrio si rivela in tutta la sua pochezza. Così Sy riusciva ancora a sentire il ticchettio dei tasti della vecchia macchina da scrivere, preparava due caffè come una volta, leggeva le sue poesie, riavvolgeva nella mente i film del loro amore, incapace, quasi paralizzato, di farne a meno.
Aveva trovato cartoni pieni di manoscritti e poesie, le aveva fatte pubblicare, andava di continuo a rimettere nel perfetto ordine in cui erano già la biancheria, i golf, i vestiti di Anna, insomma faceva esattamente tutto quello che era assolutamente sbagliato fare. Ed è inaspettato quanto la metabolizzazione di un lutto subisca d’improvviso dei colpi di scena: lui sente o immagina attraverso il telefono, parole di Anna che lo supplica di lasciarla andare perché si trova in quel limbo tra vita e morte da cui non riuscirà mai a sganciarsi finchè lui si continua a comportare così. E pensa “ Vivere è provare dolore, si era detto, e vivere con la paura del dolore significa non voler vivere”.
E per quell’insondabile istinto di sopravvivenza, poco a poco, centimetro su centimetro, grammo su grammo, rimette in circolo il proprio sangue raggelato. Cerca persino di innamorarsi di nuovo e sceglie una donna, Judith, che esattamente l’opposto di Anna, ma non funziona.
Qualcosa si smuove nel suo animo “in fermo immagine”quando decide di ospitare Bebe Coen, una stagista che si sta addottorando sulle poesie di Anna. Si eccita così tanto da rifarle un appartamentino sopra il garage, da prepararle ogni comodità, da andare a prenderla a casa. Ma non ci arriverà, perché un cervo gli taglia la strada e, senza che si verifichi un incidente letale, ma tanto basta per abbattere il suo slancio e tornare improvvisamente in quel marciume di solitudine nel quale ormai si muoveva come un fantasma. Sì, basta pochissimo, perché il dolore, come ho sempre pensato, è un maledetto fiume carsico che riappare quando meno te lo aspetti.
E’ così, infatti. Perché la nostra vita è soltanto nostra, non risponde quasi mai alle regole o alla manualistica che insegna come sbarazzarsi di una sofferenza, sfocia come un fiume in mare aperto e lì l’acqua si confonde con l’acqua e tutto è possibile, tutto è diverso, tutto è personale e ciascuno cerca appigli dove li trova. Auster si congeda da noi senza risposte. Non ci sono risposte e ogni mistero resta irrisolto. Si salvi chi può.
Libro tenero e triste, ma anche pieno di vitalità e sincerità: facciamone tesoro, senza considerarlo un mezzo di sopravvivenza, perché ciascuno ha il proprio giubbotto di salvataggio col quale andare avanti: non servono consigli, ma è utile avere almeno un battello in vista, con un filo di fumo all’orizzonte.
E, dulcis in fundo, la doverosa segnalazione dell’ultimo libro della tetralogia del nostro amato professor Letterio Gerli, che da anni ci allieta le giornate con cronache giornaliere sul mondo estetico. Lascerò l’immaginario microfono a lui per la chiosa finale. “L’arte, come forma di espressione universale, ci permette di comunicare pensieri, sentimenti ed idee. Ci permette di esprimere la nostra visione del mondo, i valori, le aspirazioni e le nostre emozioni. Questo libro, come i precedenti, è dedicato alle arti figurative e ai suoi intrecci con la musica, la letteratura ed altre discipline”. Il bel volume è dotato di una copiosa messe di fotografie, fra cui anche il prof fra i suoi amati quadri, e si conclude un bel viaggio fra tutti i nostri pittori prediletti. Omaggio al Prof !!!!!!
Dona dice
Che brava Paola, non sono riuscita ancora a leggere il libro ma mi ci hai proiettato dentro, l’ho assaporato….. grazie, appena avrò il tempo che mi manca lo leggerò con piacere doppio!