Sono quasi certa che d’ora in avanti le mie compagne di lettura non infileranno più un arrosto in forno con animo sereno. Perché la nostra mente è una cambusa sconfinata di ricordi, pensieri, parole, immagini, e chi ha più ne ha più ne metta, e proprio quando non ce ne sarebbe necessità, si diverte a farci sfarfallare davanti agli occhi qualcosa che credevamo di avere rimosso, tipo le attività sessuali dello schifosissimo compagno di studi di Paul, il protagonista del libro “ Una vita francese” di Jean Paul Dubois.
” Una vita francese” è un ottimo libro, degno di chi nel ’19 ha acciuffato il Goncourt, e descrive un’epoca tumultuosa, fortemente politicizzata – come del resto anche nel nostro Paese – ricca di autoanalisi e di deprecazione per il mondo che ci circonda. Basterebbe il racconto sconcertante della vita universitaria – inesistente – che si faceva allora e che ancora procura brividi sotto pelle perché lì si è formata la classe dirigente del nostro mondo contemporaneo.
Grande romanzo, che sicuramente tocca le corde del cuore e della mente, procurandoci non poche emozioni. Paul Blick difficilmente si può amare: è antipatico, scorbutico, passivo, respinge cose e persone, chiudendosi dapprima fra le mura di casa accanto ai figli, avuti da una moglie iperattiva, che dirige una azienda. Senza mai riuscire a liberarsi dall’ossessione della morte del fratello maggiore che, a dieci anni, per una banale appendicectomia, sprofonda la famiglia in un lutto incolmabile. Paul procede nella vita per piccoli, invisibili passi. E’ il classico antieroe, cui, il feroce attaccamento al marxismo segnerà eticamente tutta la sua esistenza.
Sono stata a Parigi la prima volta nel settembre del ‘68 e l’intero quartiere latino era asfaltato, non c’era più neppure l’ombra di un cubetto di porfido che nel rovente maggio aveva permesso a Paul e ai suoi compagni di devastare il centro, incluso il salone d’auto di suo padre, visto come un dannato piccolo borghese, che Paul gode particolarmente nell’abbattere.
Scandendo i capitoli del libro con l’avvicendarsi al potere dei presidenti della Quinta Repubblica, Dubois descrive il proprio evolversi che passa inaspettatamente attraverso il successo nella fotografia, che lo porta a fermare sulla carta alberi, solo alberi, immobili come lui. E’ un’ottima metafora del suo rifiuto di questo mondo insensato e rapace, di un nichilismo sempre più affliggente, che fa di lui un essere umano che si guarda vivere.
Paul Blick non è uno Stoner e neppure un Oblomov, ma sicuramente un concentrato di entrambi. E’ una vittima del fallimento delle opposte ideologie, con la conseguenza di frustrazioni insanabili, che si riproiettano nel contesto esteriore. È uno di quegli uomini che vivono di apparenza, nascondendo con grande attenzione la propria essenza: apparente dedizione ai figli, che è soltanto una fuga dalle responsabilità, subordinazione ipocrita alla moglie solo per insano egoismo ed anche il ruolo finale di giardiniere è il simbolo della chiusura nel proprio orticello per disfatta e per la mancanza totale di una parvenza di speranza nel futuro e nella vita. Un uomo fallito? No, non proprio così, piuttosto un uomo che si crogiola in una disperata indifferenza.
Il libro, con una scrittura di alto profilo, è dunque lo specchio della disfatta di una generazione e del progressivo sfinimento delle successive, un vero colpo di pistola alla tempia. Per sbarazzarmi da questo pessimismo cosmico, di questa infelicità globalizzata, da questa amarezza totalizzante, non mi è rimasto altro che arraffare un bidoncino di haagen dazs dal freezer e farmelo fuori davanti a una serie svedese, di quelle molto efferate.
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